Noi (donne) siamo l’apocalisse. Vorrei che chi leggesse questo articolo tenesse ben presente questa mia prima affermazione durante tutta la lettura. Il 26 novembre scenderemo nuovamente in piazza contro la violenza sulle donne. Questa data sarà l’occasione per tutti i media mainstream per snocciolarci dati fino a nausearci. 116 sono stati i casi di femminicidio nel 2021, 51 nel primo semestre di quest’anno. Una donna muore per mano di un uomo ogni tre giorni, mentre prima moriva ogni 3/4 giorni. In qualche strada o in qualche piazza verranno messe le solite scarpe rosse e qualche comune più “sensibile” metterà o aggiungerà una panchina rossa. Nei vari talkshow generalisti poi, qualcuno e ancor peggio qualcuna butterà a caso la parola patriarcato nei suoi discorsi senza senso e userà questo termine perché oggi va di moda, anche grazie alle donne curde e alle rivolte in Iran. Ma il rischio è che si perda il suo significato più profondo o meglio la struttura che si cela dietro a questa parola. Usando le parole di Sady Doyle “Patriarcato non è sessismo, ma crea sessismo e ne ha bisogno: è qualcosa di più profondo. Patriarcato non è neanche violenza maschile o cultura dello stupro. Richiede ed esalta la violenza maschile, specialmente la violenza sessuale, ma è ben più radicato delle azioni fatte per difenderlo. Il patriarcato è un’egemonia culturale e morale che impone un’unica e “naturale” struttura familiare – quella in cui l’uomo si serve della donna per procreare e crescere i suoi bambini e dove il padre esercita un’autorità indiscutibile su madre e figli – e, su una scala più vasta, costruisce società che appaiono e funzionano come delle famiglie patriarcali, governate da re, presidenti, amministratori delegati e dei, tutti maschi e onnipotenti. […] La promessa del patriarcato è che ogni uomo eserciterà potere e controllo assoluto almeno su una donna, e i più fortunati anche su altri uomini.”
Ma cosa si intende per cultura? Un modello culturale e, non dimentichiamolo sociale, si basa sul livello di comprensione della realtà, come anche e sopratutto sull’interpretazione che se ne dà e le dinamiche di potere che si vogliono creare al suo interno. Questo vale per tutte le epoche in cui si sono volute instaurare relazioni di dominio: nel momento in cui un gruppo vuole avvantaggiarsi, costruirà un sistema di pensiero, di modello di vita e di controllo sociale per giustificare la subalternità e quindi lo sfruttamento di un altro gruppo, normalizzando questa relazione. Nella cultura patriarcale il potere primario ovvero l’autorità morale, politica e di controllo sulle risorse, è riservata ai maschi, mentre alle femmine è riservato il ruolo della cura famigliare. Per “santificare” questo modello si è addirittura scomodata la biologia teorizzando che i ruoli di genere fossero la “naturale” risposta alle differenze biologiche tra uomini e donne. Gli studi degli antropologi Margaret Mead e George Murdock sono stati fondamentali per smantellare, almeno dal lato scientifico, la convinzione che il legame tra biologia e comportamento sociale fosse talmente correlato da non poter lasciare spazio a nessuna variabile; “l’anatomia” delle persone non porta ineluttabilmente a determinate funzioni sociali. Ancor oggi però questa “naturale inclinazione” non è stata scardinata nella mentalità comune. Per troppx vige ancora la figura dell’uomo forte che si prende cura della famiglia, nel senso di protezione e dominio, e della donna debole che ha cura della famiglia, nel senso di assistenza e subalternità. Ogni devianza da questo modello è connotata in modo negativo; alzi una mano chi non ha mai sentito frasi del tipo “non fare la femminuccia” o “in casa è lei che porta i pantaloni”.
La cultura patriarcale sembrava essere stata almeno in parte incrinata dalla figura della donna lavoratrice. Ma anche qui lo spartiacque tra normalità e devianza esiste, e anche qui vengono perpetrate le regole patriarcali del dominio, e non parlo solo della tipologia di lavoro “maggiormente dedicato” alle donne. Nel modello patriarcale la donna lavora non per essere autonoma e indipendente dal suo nucleo originario primario, ì propri genitori, ma per creare le possibilità di farsi una famiglia futura o, se già sposata, per aiutare la famiglia. Pensiamo solo al ritorno in auge di rivendicazioni sindacali per “armonizzare” tempo di lavoro e tempo di cura, o la richiesta di rafforzare la legge 104, o i congedi parentali e via dicendo. Non riesco a trovare altre rivendicazioni portate avanti con pari forza e determinazione atte a sostenere e far migliorare la condizione della donna tout court. Pensiamo alla legislazione per i permessi studio o a quanti diritti e tutele per una donna che vuole diventare madre e quanti soprusi e ostacoli per una che vuole abortire.
La cultura dello stupro
Il patriarcato ha vari strumenti violenti per tenerci “al nostro posto”, il più tragicamente subdolo è la cultura dello stupro. Come ebbe a sostenere Susan Brownmiller nel lontano 1975, la cultura dello stupro ha la funzione di “mantenere tutte le donne in un costante stato di intimidazione”, ma soprattutto normalizza il terrorismo fisico ed emotivo contro le donne. Alla luce di questa minaccia le donne hanno paura di avventurarsi fuori la sera, di viaggiare da sole, di bere alcolici, di partecipare alle feste. Ma, come spiegano bene Pamela Fletcher, Emilie Buchwald e Martha Roth nel libro “Transforming a Rape Culture”, “l’espressione cultura dello stupro” è in realtà molto ampia, perché fa riferimento a “un continuum di violenza minacciata che spazia dai commenti sessuali alle molestie fisiche fino allo stupro stesso”, si manifesta e si concretizza mediante l’adozione quotidiana di un lessico misogino, attraverso l’oggettivazione sessuale dei corpi femminili operata dai media e dalla pubblicità, e attraverso la rappresentazione dello stupro nei film, nella musica e in altre forme d’intrattenimento. La rape culture è intrinsecamente collegata al fenomeno del victim blaming, in quanto costituisce il suo retroterra socioculturale. Nei casi di violenza sessuale, la donna che sporge denuncia è spesso costretta a spogliarsi dei panni di vittima per rivestire il ruolo di oggetto d’indagine per l’abbigliamento indossato in quel momento, la strada percorsa, l’orario d’uscita, il numero di partner sessuali avuti nella vita, domande volte a trasferire su di lei la responsabilità di quel che le è accaduto. Nella maggior parte dei casi, non si colpevolizza esplicitamente l’abusata ma si sottintende che se la sia, in qualche modo, cercata. Inoltre si tende a raffigurare gli stupratori come sessualmente frustrati, che si celano in angoli bui per attaccare donne indifese; una descrizione che inquadra lo stupro quale crimine commesso soltanto da uomini “malati”. Non desta stupore poi se a livello cinematografico e letterario l’aggressione sessuale è spesso descritta come uno stupro compiuto da uno sconosciuto, nonostante la maggioranza delle aggressioni sia commessa da qualcuno che conosce bene la vittima, come il partner o un amico. Sia nel caso dello stupro che del femminicidio si tende ad identificare l’aggressore, o a far risaltare solo i casi in cui l’aggressore è un pazzo, o uno straniero, e, quando non si può eludere il fatto che è un uomo ben conosciuto – ex fidanzato, marito, convivente – si tratta comunque di una brava persona, un “tipo tranquillo, alle volte taciturno, ma educato”, che è stato preso da un raptus temporaneo. Per evitare poi che le donne siano stuprate si danno dei consigli paternalistici mediante l’adozione di una serie di “regole comportamentali” – uscire sempre in gruppo, non essere mai sole la notte e non lasciare mai il proprio drink incustodito – che implicano una responsabilità personale delle donne, vittime di violenza, sprovvedute e incoscienti, in quanto non sufficientemente preparate a scongiurare una possibile aggressione sessuale. Insomma si tenta di proporre una netta distinzione tra brave e cattive ragazze, atte a colpevolizzare e a rendere due volte vittime le donne che hanno subito un abuso, sia nell’opinione pubblica, sia nelle aule giudiziarie, in cui spesso si sentono violentate nuovamente e trattate come se fossero loro sul banco dell’accusa. Ovvero si realizza un processo di vittimizzazione secondaria, che fa risaltare quanto il sistema giudiziario sia fallocentrico.
Narrazioni contrapposte
Chi si riverserà nelle strade romane il 26 novembre rigetta questa narrazione perché sa perfettamente che lo stupro, il femminicidio e le molestie fisiche o verbali sono inscrivibili all’interno di una cornice patriarcale dove regna l’egemonia maschile che facilita, per non dire favorisce, l’uso di comportamenti violenti contro le donne e ogni atto violento è un atto che non è motivato dalla ricerca del mero piacere sessuale, ma commesso allo scopo di esercitare il proprio potere maschile e imporre il controllo sull’altra persona. Usando le parole di Giusi Palomba “non si può nascondere che viviamo in una società che fomenta la cultura del sospetto e del castigo, che si concentra soltanto sulla responsabilità individuale, che essa sia dell’abusata o dell’abusante, mentre abbandona a se stessa la collettività che produce il clima in cui avvengono le aggressioni, gli stupri e le violenze di ogni tipo. Non solo: li giustifica e incoraggia. Ciò che chiamiamo crimini nella società non sono altro che l’espressione della cultura di una comunità. Se il sessismo è sistemico, la responsabilità di uno stupro è altrettanto collettiva e non solo individuale, partendo dalle microaggressioni fino alle violenze più palesi.”
Si potrebbe continuare a scrivere pagine e pagine per continuare a dimostrare che siamo ancora legate capo e collo a una cultura che ci vuole inferiori e destinate a precisi ruoli. Siamo ancora intrappolate in una dinamica di dominio in cui chi si oppone o supera i limiti imposti dal proprio ruolo può aspettarsi il tipo di ritorsioni solitamente riservate agli individui “pericolosi”, passando dall’esclusione sociale, alla violenza fisica, fino all’uccisione e in cui, la cultura della violenza porta inconsciamente le donne ad avere paura di essere uccise, di essere violentate o di essere molestate sia sul lavoro che in strada o in casa.
Ma se ribaltassimo questo ragionamento? Ovvero, se fossero proprio i maschi ad avere paura di noi e per questo considerassero come ultima arma per la difesa dello status quo la violenza? In realtà, quando alle donne viene fatta violenza? Quando vogliono scappare da queste cornici prestabilite, quando non sono “conformi”, quando diventano ingestibili, quando il maschio si rende conto che non può controllarle ventiquattr’ore su ventiquattro e soprattutto che non può decidere cosa la donna desideri per sé. La violenza è il riconoscimento del nostro potere che fa paura, un potere così grande che potrebbe scardinare questa visione del mondo e che potrebbe disvelare la presenza in nuce di un nuovo modello culturale che in ogni momento può salire alla ribalta, come sempre è stato nella storia, un modello culturale in cui è la comunità a diventare protagonista, in cui al posto di gruppi in lotta per la sottomissione e il dominio ci sono solo singoli che vivono condividendo ed aiutandosi l’un l’altra, in cui la cultura della violenza è soppiantata dalla cultura del consenso e nel quale la sicurezza individuale non deve passare attraverso una giustizia e un controllo polizieschi, anche se fosse più rispettoso delle vittime e più punitivo per gli abusanti; perché dare una soluzione alla violenza attraverso la prigione o la repressione è, senza ombra di dubbio, una sconfitta. La sicurezza e il ben stare individuale deve inequivocabilmente passare attraverso la salute, morale e sociale, collettiva. Ma ritorniamo all’inizio, in greco apokálypsis (ἀποκάλυψις) significa togliere il velo, rivelazione. Allora ha proprio ragione Sady Doyle: l’apocalisse è femmina.
Cristina